Filippesi – 12) Concreta dimostrazione d’affetto

Lettura da Filippesi 4:10-23

Ancora una volta assistiamo ad una “invidiabile gara di affetto” condiviso tra l’Apostolo e i suoi fratelli in Filippi. In questo ultimo brano la stima, il rispetto e la sensibilità reciproche raggiungeranno l’apoteosi di questo sentimento di vivo attaccamento che deve incitare la Chiesa moderna ad imitare. Da una parte si evidenzia il sostegno, la cura, l’attenzione che una chiesa deve prestare a favore dei propri ministri, e dall’altra il sentimento di un padre che, consapevole delle difficoltà dei suoi “figli”, tende a non aggravarne la situazione. Prima di tutto, dobbiamo ricordarci della situazione dell’Apostolo. E’ in stato di semi libertà e, benché avesse ampio spazio di movimento, non è in grado di auto sostenersi economicamente.

Egli esprime sentito compiacimento (v. 10), non tanto per la somma di denaro che Epafra gli ha portato, soprattutto per la matura spiritualità raggiunta dai Filippesi mostrando, in modo concreto, attenzione per i bisogni degli altri, in special modo per i fratelli (I Giovanni 3:16). Il loro non fu un gesto isolato; si erano fatti carico dei bisogni dell’Apostolo e volevano continuare a farlo nel tempo. Almeno altre due volte (v. 16) i bisogni dell’Apostolo furono soddisfatti dal loro intervento economico, e questa ulteriore cura dimostrava che il loro amore non era occasionale o motivato da interessi personali. I Filippesi erano realmente preoccupati dei bisogni corporali di Paolo e colsero l’occasione del viaggio di Epafra per rinnovare la loro cura. Scrivendo ai Galati, l’Apostolo insegna quale atteggiamento deve mantenere colui che riceve l’ammaestramento a favore di colui che l’ammaestra Colui che viene ammaestrato nella Parola faccia parte di tutti i suoi beni a chi l’ammaestra” (Galati 6:6). In modo simile, ai fratelli di Corinto è impartito lo stesso insegnamento Così ancora, il Signore ha ordinato che coloro i quali annunziano l’Evangelo vivano dell’Evangelo” (I Corinzi 9:14). Questo ordinamento ha come fondamento le parole di Gesù, quando inviò i 70 discepoli a proclamare l’Evangelo nelle contrade della Palestina: Or dimorate in quella stessa casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l’operaio è degno della sua mercede…” (Luca 10:7). Sebbene questo argomento ad alcuni potrebbe sembrare ostico da trattare, esso affonda le radici già nell’Antico Testamento, ovvero nel libro del Deuteronomio cap. 26 vv. 12 e 13: “Quando avrai finito di prelevare tutte le decime delle tue entrate, il terzo anno, l’anno delle decime, e le avrai date al Levita, allo straniero, all’orfano e alla vedova perché ne mangino entro le tue porte e siano saziati, dirai, dinanzi all’Eterno, al tuo Dio: “Io ho tolto dalla mia casa ciò che era consacrato, e l’ho dato al Levita, allo straniero, all’orfano e alla vedova, interamente secondo gli ordini che mi hai dato; non ho trasgredito né dimenticato alcuno dei tuoi comandamenti, e richiama l’ordine di Dio dato al suo popolo tramite Mosè: “I sacerdoti levitici, tutta quanta la tribù di Levi, non avranno parte né eredità con Israele; vivranno dei sacrifizi fatti mediante il fuoco all’Eterno, e della eredità di lui” (Deuteronomio 18:1-8).

Ancora una volta l’Apostolo, interpretando i sentimenti dei suoi lettori e attento a non far fraintendere l’insegnamento a beneficio personale, puntualizza la sua situazione: “Non sono interessato alle vostre attenzioni nei miei riguardi, perché in tutti questi anni trascorsi alla presenza di Dio, lo Spirito Santo mi ha amalgamato, formato a tal punto di essere contento di ogni situazione in cui mi vengo a trovare”. L’Apostolo possedeva una ricchezza più preziosa di ogni somma di denaro. Riusciva a gioire di ogni benedizione che proveniva da Dio. Alla Sua scuola sapeva accontentarsi di poche briciole di pane, mangiandole con ringraziamento, e altresì sapeva gestire l’abbondanza in cui, a volte, si trovava. Aveva sottomesso la sua volontà a quella del Signore, sia quando era saziato sia quando il cibo scarseggiava. Sapeva gestire le sue passioni, le sue emozioni, i sentimenti; sempre sottoponendo all’azione dello Spirito Santo il suo carattere. Non sempre era facile, ma egli “poteva fare ogni cosa in Colui che lo fortificava” (I Corinzi 9:25-27). Sia questo il sentimento di ogni ministro di Dio. Egli deve servire il Signore senza alcuna pretesa umana, senza aspettarsi riconoscimenti o gratificazioni di alcun genere. L’Apostolo aveva imparato a tessere tende, con Aquila e Priscilla, pur di non aggravare le chiese (I Tessalonicesi 2:3-9). Nondimeno vi deve essere molta attenzione per le necessità di coloro che si affaticano nell’amministrazione della svariata grazia di Dio, in quanto non avendo tempo da dedicare a procacciarsi ciò di cui ha umanamente e naturalmente bisogno, è indispensabile che sia sostenuto da chi ne beneficia (I Corinzi 9:1-16). Non si sa a quanto ammontavano i beni ricevuti da Epafra. Dal tono del ringraziamento è possibile che per un certo tempo l’Apostolo avrebbe potuto sostenersi senza preoccupazione. In ogni caso egli mostra “soddisfazione ed appagamento” del presente senza crucciarsi del futuro (Matteo 6:25). Proprio in considerazione del futuro, egli rassicura i donatori che il “suo Dio” avrebbe potuto provvedere copiosamente anche per i loro bisogni, secondo le ricchezze in Cristo (v. 19). Limitare i sentimenti dell’Apostolo all’appagamento dei meri bisogni fisici e materiali sarebbe irrispettoso nei suoi riguardi.

Il dono ricevuto rappresentava anche un messaggio d’amore e di sostegno morale e spirituale. E’ più agevole soddisfare i bisogni fisici procacciando mezzi fisici, ma le ferite del cuore e dell’anima nessuno e niente possono sanarle, se non l’amore. Considerando la figura di Paolo, potremmo dedurre che fosse stato un uomo di successo, famoso, richiesto e ben voluto. Mai penseremmo a lui come un uomo solo e sofferente di solitudine. Ebbene, come spesso accade, molti sono disposti ad esserci amici, quando abbiamo qualcosa da offrire o quando il nostro comportamento è loro congeniale, ma quando la situazione è avversa, anche l’uomo più potente e ricco rimane solo. A quel punto ci accorgiamo del valore degli amici, dei fratelli in Cristo, della moglie, del marito. L’Apostolo conosceva l’abbandono e il rifiuto, proprio da chi avrebbero dovuto essergli riconoscenti (II Timoteo 4:14-16). Quale triste condizione quando si incrina la comunione dei fratelli! Non di meno l’Apostolo ricorre al suo Rifugio, al Consolatore, Colui che può supplire ogni sua esigenza, anche di tipo morale e spirituale. Invece di abbandonarsi allo scoramento, alla critica, alla recriminazione, egli si fortifica in Cristo (II Timoteo 4:17-18). Gloria a Dio per il Consolatore, lo Spirito Santo che intercede per noi con sospiri ineffabili (Romani 8:26), ma Dio, ci ha chiamato ad un rapporto di stima e rispetto senza tralasciare il dovere di portare i pesi gli uni degli altri (Efesini 4:1-3). Quale consolazione per il giovane condottiero Giosuè, sentirsi sorretto dal suo popolo. Mosè, alla sua morte, gli lascia il comando; il compito è arduo e difficile, Mosè lo sa bene, e lo incoraggia: “Non temere poiché l’Eterno sarà con te in ogni circostanza” (Deuteronomio 31:8). Il cuore di Giosuè si rinsalda, quando Dio stesso gli parla e rinnova la Sua assistenza: Non te l’ho io comandato? Sii forte e fatti animo; non ti spaventare e non ti sgomentare, perché l’Eterno, il tuo Dio, sarà teco dovunque andrai” (Giosuè 1:9). Poteva essere già sufficiente quanto ricevuto, ma Dio conosce i nostri cuori e le necessità interne in modo perfetto. Giosuè trova l’appoggio anche del popolo che gli offre rispetto e ubbidienza (Giosuè 1:16-18). Con questa dichiarazione la sua autorità di condottiero è ratificata. Ora Giosuè non ha più alcun dubbio; ha ricevuto la conferma del suo predecessore, di Dio ed anche del popolo.

Saluti

Ed eccoci arrivati ai saluti, solitamente scritti di pugno dall’Apostolo, così come l’introduzione. Egli desidera che il suo saluto giunga a tutti i fratelli, ai santi in Cristo, e porge anche i saluti dei fratelli che dimoravano con lui, anche i fratelli della casa di Cesare. Questi erano dei credenti, famigliari e servi dell’Imperatore che avevano udito ed accettato il messaggio dell’Evangelo e facevano parte della chiesa costituita di Roma. Egli non vuole dimenticare nessuno. Ama tutti e, forse, intravedendo l’ultima occasione per condividere con loro momenti di comunione, vuol far comprendere che nessun’ombra del passato abbia potuto, anche minimamente, diminuire il suo amore per loro.

Epilogo:

L’epistola, come abbiamo visto, non contiene rigide linee dottrinali, ma è ricca di insegnamenti pratici di vita quotidiana dove l’etica, il rispetto e la stima tra i credenti si rafforzano con l’amore. Era facile amare la chiesa di Filippi, ma l’amore cristiano di Paolo non era condizionato da stimoli o situazioni umane, egli amava di quell’amore insegnatoci da Cristo, amore che ci permette di rinunciare a noi stessi per il bene dell’altro. Affrancato da ogni condizionamento sentimentale, l’Apostolo a buona ragione scriveva ai Corinzi 13:1-13 Quand’io parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, se non ho carità, divento un rame risonante o uno squillante cembalo. E quando avessi il dono di profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e avessi tutta la fede in modo da trasportare i monti, se non ho carità, non son nulla. E quando distribuissi tutte le mie facoltà per nutrire i poveri, e quando dessi il mio corpo ad essere arso, se non ho carità, ciò niente mi giova. La carità è paziente, è benigna; la carità non invidia; la carità non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non sospetta il male, non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa. La carità non verrà mai meno (….) Or dunque queste tre cose durano: fede, speranza, carità; ma la più grande di esse è la carità”.

Pastore Raffaele Lucano

 

Lascia un commento