Nella Parola, sono contemplati cinque libri poetici: Giobbe, Salmi, Proverbi, Ecclesiaste e Cantico dei Cantici. Sono definiti tali per la loro struttura letteraria, perché formati quasi completamente da versi secondo lo stile e la metrica della poesia Ebraica, espressa con il cosiddetto “parallelismo”, (cioè la corrispondenza tra due o più pensieri di significato identico o opposto; questa corrispondenza può essere di contrasto, di armonia o di pensiero progressivo). I libri poetici sono delle vere e proprie massime sapienzali. Dalla mole di scritti e dalla loro presenza un po’ ovunque nella Bibbia, apprendiamo che la musica e la poesia unite insieme, sono presenti in tutti i momenti importanti della vita domestica e sociale del popolo ebraico, quali le nozze, la mietitura, la vendemmia, le feste, le vittorie in tempo di guerra. Per citare solo qualche esempio: l’inno di Mosè, di Debora, l’inno di Davide per Saul e Jonathan. Il libro di Giobbe è annoverato tra i più grandi poemi della letteratura antica. Risale al periodo patriarcale ed è con certezza il libro più antico della Bibbia, poiché in esso non è presente alcun cenno alla storia del popolo ebraico o alle sue istituzioni e ancor meno alla Legge mosaica. Giobbe era il Sommo Sacerdote della sua famiglia e qualcuno sostiene che Melchisedec e Giobbe fossero la stessa persona, perché entrambi erano: Principe, Sacerdote e Savio. “Ecco quel che abbiamo trovato riflettendo, così è, ti ascolta e fanne tesoro.” (Giobbe: 5:27) Questa frase pronunciata da Elifaz, uno dei tre amici di Giobbe venuti a consolarlo, è una tipica affermazione “a sproposito”! Essa non fu sicuramente incoraggiante, perché l’amico era convinto che il povero Giobbe avesse dei peccati nascosti e, non sapendo cosa dire, prima lo accusa e lo esorta ad accettare la sua condizione di peccatore senza porsi tanti quesiti, poi lo invita a ravvedersi: “riconciliati dunque con Dio; avrai pace” (Giobbe:22:21). Non è difficile immaginare i sentimenti di Giobbe in quel momento della sua esistenza. Lui che era un uomo di giustizia e di rettitudine, un uomo di preghiera e di vita esemplare forse come nessun altro sulla terra, non aveva pace, perché si sentiva colpito da Dio e abbandonato da tutti, ma soprattutto non comprendeva il comportamento di Dio nei suoi riguardi; aveva bisogno di risposte e di qualcuno che difendesse la sua causa davanti al Signore; egli era come la vittima in mano al proprio carnefice.
Giobbe non aveva nulla da rimproverarsi, lui era convinto della sua integrità e innocenza. Quest’uomo affranto, ricorda con nostalgia i bei tempi passati quando viveva nella gioia e sotto la protezione di Dio, quando usava amore verso lo straniero, aiutava il bisognoso, difendeva il debole e l’orfano insomma quando godeva il rispetto di tutti. Di Giobbe è scritto: “…temeva Dio e fuggiva il male” (Giobbe:1:1). Quando siamo colpiti da un problema familiare o finanziario, da una grave malattia, quando le situazioni non derivano da scelte errate, ma sono generate da circostanze contingenti, cioè quando: “Piove sul giusto e sull’ ingiusto” (Matteo 5:45), ci sentiamo legittimati a “litigare” con Dio, a “rimproverarLo”, in quanto pensiamo che il suo atteggiamento nei nostri confronti non sia consono al nostro “senso di giustizia”, in una parola ci pare essere una mera angheria! Evinciamo dalla Scrittura: “Or sappiamo che tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio, i quali sono chiamati secondo il suo disegno” (Romani 8:28), ed ancora “Perciò non ci scoraggiamo; ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, il nostro uomo interiore si rinnova di giorno in giorno. Perché la nostra momentanea, leggera afflizione ci produce un sempre più grande, smisurato peso eterno di gloria” (2 Co. 4:16-17). Semplice a dirsi se siamo nella quiete, ma se ci troviamo nell’occhio del ciclone? Non giudichiamo buoni i “vani ragionamenti” di Giobbe? Probabilmente a motivo della figura che rappresentava all’interno della sua famiglia, Giobbe avrebbe dovuto continuare a pregare e ad offrire sacrifici al Signore invece di sfidare l’Onnipotente. Accade anche a noi: in alcuni frangenti della nostra vita, noi non siamo da meno: i nostri anni di fede, le nostre esperienze, le nostre conoscenze teologiche e dottrinali, talvolta appaiono come veri e propri ostacoli al nostro cammino spirituale. Arroccati alla nostra sapienza, distogliamo i nostri occhi dalla realtà che viviamo. Giobbe riteneva se stesso pari ai suoi amici, era un uomo giusto e voleva vedere Dio razionalmente, ma era caduto nello scoraggiamento, perché non comprendeva e non sapeva dare un senso alla sua vita presente; sebbene non avesse rinnegato la fede, era assillato da un quesito apparentemente senza risposta: perché a lui, uomo giusto erano riservate tante sciagure mentre ai peccatori tanta abbondanza? Talvolta ci accade di notare, in quanti intorno a noi ancora non conoscono il Signore, salute, benessere, tranquillità, serenità familiare, mentre noi siamo avvolti in situazioni oscure e assurde, senza aver offeso Dio, senza aver commesso nulla di sbagliato, sebbene nella consapevolezza che se il Signore permetta tale circostanza, una ragione debba esserci! Ovviamente, ogni reazione è figlia del grado di maturità spirituale acquisito, pertanto è lecito chiedersi: “Giobbe così integro, timorato di Dio e spirituale, di cosa aveva bisogno?” Egli doveva realizzare un incontro personale con il Signore per comprendere che la sua “perfezione” non era affatto reale! Parimente, non pensiamo che Dio sia crudele, tragga soddisfazione nel farci soffrire e non accolga le nostre preghiere, poiché Egli è amore ed è benigno verso i suoi figli. I tre amici di Giobbe avrebbero dovuto sostenerlo, perorare la sua causa, redimerlo, essere “mediatori” con Dio, tuttavia non fu così, fu piuttosto Giobbe stesso a pregare per loro. Quando chi dovrebbe “simpatizzare con le nostre sofferenze” ed intercedere per noi, non ha risposte “assennate”, in quei casi dolorosi, dovremmo fare appello alla nostra maturità spirituale e presentarli al Signore in preghiera, ed Egli risponderà a noi e a loro. Accettiamo il bene dall’Eterno, ma non disprezziamo la Sua correzione, permettendo che la cattiva testimonianza del messaggero possa inficiare la bontà del messaggio: “Allora Elifaz di Teman rispose e disse: «Se provassimo a dirti una parola, ti darebbe fastidio? Ma chi potrebbe trattener le parole? Tu ne hai ammaestrati molti, hai fortificato le mani stanche; e le tue parole hanno rialzato chi stava cadendo, hai rafforzato le ginocchia vacillanti; e ora che il male piomba su di te, ti lasci abbattere; ora che è giunto fino a te, sei tutto smarrito. Il tuo timor di Dio non ti dà fiducia, e l’integrità della tua vita non è la tua speranza? Ricorda: quale innocente perì mai? Dove furono mai distrutti gli uomini retti?” (Giobbe 4:1-7)
Voglia Iddio considerarci degni come Giobbe, da investire la Sua fiducia su di noi!