Filippesi – 06) Raggi di sole nelle fitte tenebre

Lettura da Filippesi 2:12-18

Questo brano contiene delle importanti esortazioni che indirizzano i credenti ad analizzare alcuni aspetti morali del proprio comportamento nella Chiesa. Dio è luce e coloro che sono suoi devono camminare nella luce per risplendere nelle fitte nebbie del peccato che regnano nel mondo. 

La salvezza, dono di Dio
Prima di tutto, l’Apostolo sensibilizza l’attenzione dei Filippesi all’osservanza dell’etica cristiana. Il servo non deve essere diligente e onesto solo quando è presente il padrone ma, a motivo della sua coscienza, sapendo che deve dar conto a Colui che vede sempre, deve essere maggiormente ubbidiente quando il padrone è assente. E’ poco onorevole per un cristiano svolgere il proprio compito per un mero dovere, come se dovesse dar conto agli uomini.

Con questo spirito, il cristiano serve Cristo mettendo a disposizione i suoi talenti a beneficio della Chiesa (Matteo 25:40).  Svolge un servizio volontario, spontaneo e generoso, non soggetto a retribuzione, sotto il profilo economico, ma appagante e soddisfacente perchè donato con amore (Atti 20:35). E’, e deve essere, l’amore che ci spinge a servire Dio; anche in questo consiste la vera libertà (Galati 5:13). Per questo motivo il credente deve dipendere dalla guida dello Spirito Santo, poichè consapevole delle proprie debolezze, si affida a Colui che è in grado di operare la Sua volontà in noi (v. 13). Lo Spirito Santo guida la Sua Chiesa in tutta la verità e le dona forza per raggiungere la santificazione.

Mormorii e dispute tra fratelli
Successivamente, l’Apostolo entra nei dettagli sottolineando un atteggiamento che, a parer dei posteri, non avrebbe alcun signif
icato contestuale. Non si conosce il motivo per cui rivolge  questa esortazione ad una chiesa che, come abbiamo detto, è spirituale e rispettosa. Forse era giunto alle orecchie dell’Apostolo qualche lamentela, forse Timoteo ed Epafròdito avevano riportato il vociferare di alcuni scontenti che stagnavano nella chiesa e che infastidivano lo sviluppo spirituale. Da notare, in ogni caso, quale delicatezza (e fermezza nello stesso tempo) usa l’Apostolo. Non fa nomi (a buon intenditore poche parole) poichè è convinto che a coloro ai quali lo Spirito parla, la coscienza viene sensibilizzata. Mormorare, significa emettere suoni sommessi, brontolare del continuo, confabulare insistentemente con voce sommessa, sussurrare, bisbigliare, tutto alle spalle delle persone interessate! Non è tipico della società in cui viviamo? Tutti si lamentano e mormorano: “Anche se va bene… potrebbe andare meglio”, è l’usuale risposta. L’Apostolo richiama l’attenzione di questi “fastidiosi foruncoli” a interrompere questa perniciosa attività e a risplendere come luminari in una generazione storta e perversa (v.15),  operando senza mormorare e generare dispute. Momos era una divinità venerata dai Greci e che trovava da ridire su tutto e tutti. Non faceva nulla da se stesso, ma trovava colpe negli uomini e nelle cose. Alludendo a questa divinità, tutti coloro che criticavano continuamente gli altri e censuravano le loro azioni, erano chiamati Momoi (vedi commentario Matthew Henry). Coloro che nella chiesa sono attivi e coinvolti nello sviluppo, pur impiegando tutte le proprie capacità e talenti, devono ammettere di essere insufficienti a tale alto e maestoso compito. Come servi disutili, non saremo mai in grado di supplire pienamente al nostro mandato. Riconosciamo le nostre debolezze, ma esse non devono essere occasione per i mormoratori e insoddisfatti di biasimare l’opera di Dio, anzi il suggerimento perentorio dell’Apostolo è di “…risplendere come luminari nel mondo, tenendo alta la Parola della vita”. Era tipico del popolo d’Israele mormorare ai danni di Mosè e Aronne. Gente che si lamentava per ogni cosa. La Parola usa termini severi nei loro confronti (Numeri 11:4). Purtroppo, anche Aronne e Maria, fratello e sorella di Mosè, caddero nella tentazione del mormorio e della lagnanza, con gravi conseguenze per Maria (Numeri cap. 12). In realtà, questo atteggiamento evidenzia tre condizioni spirituali: Rigetto della volontà di Dio (I Samuele 8:7); Disinteresse per il Corpo di Cristo (Romani 12:3-12);  Mancanza di fiducia nell’opera di Cristo, personale (Filippesi 4:4 – I Timoteo 6:6) e comunitaria (Matteo 16:18). Abbandoniamo il mormorio ed il malcontento, facendoci partecipi in ogni attività ecclesiastica con zelo ed entusiasmo. Lasciamo lo spirito di critica distruttiva e consigliamoci a vicenda, non per esaltare la nostra persona ma per l’edificazione del Corpo di Cristo, la Chiesa (Giuda 1:16).

La Chiesa, orgoglio del pastore
Colui che è chiamato a pasturare il gregge di Dio troverà la sua piena soddisfazione e gioia nello sviluppo del gregge. L’Apostolo esorta i Filippesi a non limitarsi ad essere “figlioli senza biasimo” ma li incoraggia a mirare ad una maggiore elevazione: Irreprensibili e schietti in una generazione storta e perversa (v.5). E dovrebbe essere “naturale” per un figlio prodigarsi affinchè il padre e la sua famiglia non siano vituperati. Egli cercherà, con una buona testimonianza, di onorare il buon nome della Sua famiglia; la Chiesa appartiene a Dio e nessuno può permettersi di infangare la Sua proprietà (Romani 7:4). Per questo motivo l’Apostolo insiste e ci esorta a:
Essere luminari nel mondo, come un faro che attira le navi verso il porto in una notte di tempesta, in modo che coloro che ci stanno vicini trovino in noi un riferimento sicuro, fermo e distinto, nella moralità, nell’etica, nei pensieri, nel linguaggio. Spesse volte, la testimonianza più efficace è quella silenziosa, cioè la eloquenza del nostro comportamento che indurrà le persone a chiederci il motivo della nostra diversità (II Corinzi 6:14 I Pietro3:14-16).  Non dobbiamo accontentarci di essere credenti, ma dovremmo puntare ad essere del buoni cristiani, non solamente appartenere a Dio ma essere Uomini di Dio (I Timoteo 6:11).
A tenere alta la “Parola di Dio”. La credibilità della Verità esposta nelle Scritture, dipende anche dal modo in cui noi cristiani la presentiamo al mondo. Se ci presentiamo con l’autorevolezza indiscussa della Parola e saremo per primi ad onorarLa, la gente La prenderà sul serio. Alcuni “manovrano” la Parola a proprio uso e consumo, citando versetti e rivestendosi di un alone di falsa conoscenza che attira i curiosi ed i contenziosi ma allontana coloro che sono affamati di verità. Non dobbiamo atteggiarci come i Farisei che allungavano le loro frange per far notare la loro esteriore religiosità (Matteo 23:5). La Parola di Dio deve essere impressa nel nostro cuore e dobbiamo onorarLa evidenziandone il carattere in modo pratico e quotidiano. Per questo motivo l’Apostolo manifesta orgoglio per la chiesa di Filippi. Il pastore, si diceva, tale per vocazione, proverà per la “sua” chiesa il desiderio di vederla prosperare. Egli piange, soffre, intercede e dovrebbe anche gioire per le vittorie riportate dai suoi fratelli (Ebrei 13:17). Quale gioia per Paolo avere al suo fianco un giovane come Tito (Tito 1:4), quale onore essere compagno di viaggio e di lavoro di Aquila e Priscilla (I Corinzi 16:19), quale consolazione avere un collaboratore come Epafròdito (Filippesi 2:25), ma quale dolore nell’intimo dell’animo per Imeneo e Alessandro, due discepoli che avevano rigettato la fede (I Timoteo 1:19-20).
Il desiderio era tale che era disposto a rinunciare alla sua stessa vita per offrirla in cambio della salvezza dell’anima dei suoi fratelli. Egli usa il termine “libazione” (o libagione), offerta a divinità rappresentata da sostanze liquide versate sul capo, tombe o altari) come richiamo dell’opera di Cristo per l’espiazione del peccato. Cristo sulla croce si è sostituito al peccatore accettando su di se la relativa condanna pretesa dalla legge. Il Suo sangue versato è il prezzo che soddisfa la giustizia e la santità di Dio. L’apostolo si fa interprete dell’amore di Cristo per i reprobi e con tale sentimento intende trasmettere il suo affetto per i fratelli. Continueremo a parlare di questo soggetto nella meditazione dei prossimi versetti, per ora concludiamo questa sezione evidenziando il fondamento sul quale costruire il delicato e sublime rapporto tra credenti: l’amore (I Corinzi 13:4-7).

Il brano contiene l’esortazione rivolta allo scopo di mantenere, come un dono prezioso, la salvezza delle nostre anime. Nessuno di noi può fare alcun che per meritare la salvezza. La Parola di Dio è chiara Efesini 2:8 “Poiché gli è per grazia che voi siete stati salvati, mediante la fede; e ciò non vien da voi; è il dono di Dio”, nessuno può arrogarsi il merito di aver ottenuto la misericordia di Dio in virtù delle proprie opere.  A noi è affidato il compito di mantenere, proteggere e sviluppare questo dono. Privilegiati e diretti beneficiari, come saggi amministratori dobbiamo saper valorizzare ciò che ci è stato affidato (I Corinzi 4:1-2). Non possiamo guadagnarla ma è possibile farla svanire, disperderla nel tempo. Per questo motivo l’Apostolo ci esorta a “compiere” la nostra salvezza. Dobbiamo completare qualcosa che ci è stato donato, impegnarci, diligentemente, a costruire con tutti mezzi spirituali messici a disposizione. Non saltuariamente ma tutti i giorni, non superficialmente ma con “timore e tremore”. Nel trasportare un oggetto di grande valore ma di estrema fragilità, useremmo molta cautela, attenzione, impegno, così la salvezza della nostra anima deve essere oggetto della nostra massima attenzione. Tremore e timore non significano paura del giudizio o ripensamento da parte di Dio, poichè Egli dona senza rinfacciare (Giacomo 1:5), ma avere quella giusta e necessaria consapevolezza che stiamo amministrando la misericordia di Dio: La salvezza della nostra anima, il dono più prezioso che l’uomo possa ricevere, una promessa che dobbiamo custodire nel nostro cuore e sviluppare al fine di non “rimanere indietro”  (Ebrei 4:1 – Luca 16:2).

Pastore Raffaele Lucano

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