Lettura da Filippesi 3:4-11
Parole dure, severe, contro chi minaccia la sana dottrina e l’armonia spirituale della chiesa. Farebbero bene i ministri a prendere risolutamente posizione nei confronti di chi “semina zizzanie” e introduce furbescamente il lievito che fa lievitare tutta la pasta. Scrivendo alla chiesa di Corinto che tollerava un tal “peccato che non si trovava nemmeno tra i Gentili”, coinvolgeva, soprattutto, il conduttore che aveva, e doveva, avere l’autorità di sradicare tale peccato. Il peccato nella chiesa si intrufola con eleganza. aveva realizzato il bene più grande che un uomo possa desiderare: Cristo Gesù. 1-2)? Grande responsabilità è demandata alla chiesa, detentrice della verità, presentare il messaggio della riconciliazione a Dio ai reprobi penitenti (II Corinzi 5:17-20). Nel verso 8, l’Apostolo dichiara di aver rinunciato a tali diritti al fine di realizzare la conoscenza di Cristo Gesù. Ad alcuni può sembrare un atto di estrema sofferenza, ma per Paolo non significava aver perso qualcosa ma piuttosto aver guadagnato un tesoro inestimabile di gran lunga più prezioso di qualsiasi altro bene terreno. Il cristiano farebbe bene a non concentrare la propria attenzione su ciò che apparentemente lascia, ma piuttosto su ciò che consegue aver accettato Gesù come personale Salvatore.
Questo pensiero ci introduce alla sublime speranza che sostiene ogni sincero credente: La resurrezione dei morti. Mai in modo palese ma circondato da un alone di legittimità e di perbenismo, spesse volte accompagnato dalla “buona fede” e da apparenti buone intenzioni.
L’Apostolo denuncia ai Filippesi l’orgoglio e il presunto vanto di alcuni che pretendevano riconoscimenti per le loro capacità e convinzioni umane a discapito della grazia divina. Noi abbiamo ogni cosa non per meriti ma per la misericordia di Dio (Tito 3:5). Nella chiesa non si deve manifestare una sapienza religiosa ma dimostrazione della potenza della predicazione della Parola di Dio che non solo trasforma le menti ed il cuore ma edifica e, nel contempo, glorifica il nome di Dio (I Corinzi 2:3-5).
L’Apostolo non parla con retorica ma si presenta come un esempio vivente. Se costoro avevano motivi di vanto, egli ne aveva molti di più e ne fa un lungo elenco (v.4). Ebreo di ebrei in quanto generato da padre e madre Israeliti i cui avi non si erano mai uniti ad alcun pagano; circonciso l’ottavo giorno, portava nel suo corpo il sigillo di appartenenza al Patto Antico; discendente della razza di Beniamino (il figlio prediletto di Giacobbe), privilegiata da Dio. Fariseo istruito alla scuola di Gamaliele, stretto osservante della Legge, zelante ed irreprensibile da indurlo a perseguitare coloro che minacciavano le sue convinzioni. Socialmente godeva della cittadinanza romana, non per acquisizione ma per cittadinanza, e ciò gli attribuiva diritti di particolare rilievo. Insomma, se qualcuno poteva vantarsi, lui poteva arrogarsi maggiormente questo diritto. Ma, come il mercante di perle della parabola di Gesù (Matteo 13:45-46), Paolo Dinanzi a tale sublime preziosità, egli non esitò a rinunciare ad ogni forma di vanto, anzi egli dichiarò ogni sapienza umana un “danno di fronte alla eccellenza della conoscenza di Cristo” e “tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo”.
La chiesa moderna dovrebbe chiedersi, con molta onestà, su cosa fonda la propria speranza. Su quale fondamento ha gettato le basi e sta costruendo la propria fede? Al di là di ogni opinione personale, quale frutto può presentare a Cristo? La predicazione della croce di Cristo rappresenta ancora oggi la centralità del culto (I Corinzi 2: